Ateneo

La casa di carta: storia di un doppio “riscatto”

16 Aprile 2020

Di Valentina Re

Uscita in piena emergenza Coronavirus, La casa di carta 4 dimostra ancora una volta quello che, da sempre, le buone storie sanno fare: farci viaggiare, anche senza muoverci di casa, nel tempo e nello spazio. E se in epoca di quarantena la maratona su Netflix la possiamo anche fare, per così dire, “in solitaria”, saranno poi i molti spazi di discussione online a permetterci di ritrovare una dimensione di scambio e di socialità con gli amici e con gli altri fan della serie, numerosissimi in tutto il mondo.

Perfetta per il binge watching, attesissima in tutto il mondo ad ogni nuova release, popolarissima e commentatissima sui social, La casa di carta sembra proprio avere tutte le caratteristiche delle serie originali prodotte e distribuite dal colosso globale dello streaming, Netflix.

Eppure, la storia è un po’ più complicata. Possiamo interpretare la storia di La casa di carta come quella di un doppio “riscatto”: dei personaggi che abbiamo imparato ad amare, innanzi tutto, ma anche di coloro che questi personaggi li hanno creati – attori, registi, sceneggiatori, produttori, direttori della fotografia, montatori… Tutto quel mondo della creatività, insomma, a cui il nostro Dams si rivolge, e per il quale le grandi piattaforme globali possono rappresentare una sfida e un’opportunità.

Da un lato abbiamo il plot, il racconto, che alla Link impariamo a costruire nel corso di Screenwriting: con quel ritmo implacabile che, a parte qualche sbavatura, guarda alla migliore tradizione dell’heist movie (il film di rapina), e in alcuni momenti sembra quasi omaggiare il Soderbergh più brillante, quello degli Ocean’s.

Abbiamo le location, la Spagna ma anche l’Italia, l’Europa del Mediterraneo, con il suo calore, le sue tavolate affollate e imbandite, le sue musiche che viaggiano, si ibridano, ci fanno sentire comunità.

E infine abbiamo i personaggi: una banda di losers, in fondo, di perdenti, emarginati, pieni di debolezze e di difetti. Ma è dal loro punto di vista che osserviamo le cose, ed è per questo che simpatizziamo con questi outsider che ricorrono al crimine, certo, ma in nome di una più ampia giustizia sociale.

Osservato dal loro punto di vista, il mondo che li ha esclusi appare corrotto e spietato. In cerca di riscatto, a questo mondo privo di ideali e di valori rispondono con un codice etico alternativo: che certo devia rispetto alla morale comune, ma che ci appare comunque autentico e genuino, capace di consolidare i rapporti e i legami anche nei momenti di crisi.

Otterranno questo riscatto? Forse lo hanno già ottenuto, attraverso le relazioni di fiducia e di rispetto che hanno stabilito tra loro? O attraverso il sostegno popolare che li sprona?

Questo, La casa di carta 4 non ce lo svela ancora, ma quello che possiamo senz’altro confermare è il successo di chi sta dietro le quinte. Ed è, anche questa, una storia di “riscatto”.

Contrariamente a quanto potrebbe apparire, La casa di carta non nasce come produzione originale Netflix, ideata e sviluppata all’interno della piattaforma globale.

Le parti 1 e 2 della serie, infatti, vengono co-prodotte dall’emittente spagnola Antena 3 con Vancouver Media: ma è una serie che da subito guarda al mercato internazionale, ci scommette, e vince la sua scommessa.

La vince per tante ragioni: perché osa re-interpretare un genere, l’heist movie, sicuramente più americano che europeo, e ne sfrutta tutte le risorse narrative; perché coniuga un genere di intrattenimento popolare con un lavoro di scrittura raffinato, creando personaggi complessi, ambivalenti, fragili, appassionati; perché ha la capacità di radicare una classica storia di rapina in un contesto che è fortemente caratterizzato a livello geografico, economico e politico, ed è in grado di generare appartenenze, reazioni, discussioni.

A Netflix va certo riconosciuto il merito di aver individuato le potenzialità “glocal” della “piccola” produzione spagnola: prima acquisendo i diritti per la distribuzione internazionale sulla piattaforma, e poi decidendo di intervenire direttamente per co-produrre le parti 3 e 4, con un repentino cambio di scala nel budget che tutti possiamo chiaramente riconoscere.

D’altro canto, va sottolineato che Netflix è ben cosciente dei suoi meriti, e non ha esitato a celebrarli (e autocelebrarsi) nel documentario La casa di carta: il fenomeno, disponibile insieme alla parte 4, che trasforma la storia produttiva della serie in una sorta di narrazione epica, o di mito delle origini.

Quello che ci auguriamo il nostro Dams possa fare è fornire gli strumenti per identificare la retorica del colosso americano pur riconoscendo, ne La casa di carta, un possibile modello per la serialità europea, e forse anche per quella italiana: una serialità che sappia competere nello scenario globale, che sappia confrontarsi anche con i generi meno frequentati nelle tradizioni nazionali, valorizzare la ricca diversità territoriale e culturale del continente europeo, e costruire personaggi complessi, articolati, combattuti, persino contraddittori, che proprio dalla loro (umana) contraddittorietà traggono molta della forza per appassionarci.