Ateneo

Logos vs Virus. Covid-19 nemico peggiore sul cammino di Francesco

07 Aprile 2020

Di Piero Schiavazzi
da Huffington Post

Logos versus virus. Covid – 19 contro anima mundi.

Da Domenica delle Palme a Domenica dei “palmari”. Al posto del tappeto di mantelli e rami d’ulivo, Bergoglio ha “virtualmente” fatto ingresso, dai tablet e dagli schermi televisivi, nella settimana cruciale dell’anno liturgico.

Davanti alle piazze vuote, Francesco raccoglie la sfida, ineludibile per un Papa, di riempirle di senso. Sentendo sotto di sé “la certezza che si sgretola” e sopra le spalle il peso della storia. Con la memoria, recente o antica, di celebri duelli epocali. Tra pieghe degli anni e piaghe degli uomini.

Cercando nell’aria il nemico invisibile. Diverso dalle frecce a tre punte dei cavalieri unni. Dalle spade a due mani dei fanti lanzichenecchi. Dalle fortezze, volanti e gravide, che rasero al suolo San Lorenzo. E optando al dunque per la strada del logos, in luogo del patos.

Scegliendo, sul crinale scosceso tra le sue due anime, la via cognitiva, endoscopica, ignaziana del discernimento, piuttosto che quella emotiva, esoterica, sudamericana del sentimento.

“Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio”.

Giudizio severo. Da ultima spiaggia. Tirato a lucido da una pioggia leggera e indirizzato a un mondo che, avrebbe detto il predecessore, “soffre per mancanza di pensiero”. Discorso duro, divaricato tra i toni, sussurrati teneramente al microfono, e i contenuti, che riecheggiano segnatamente all’unisono e tracciano una linea, retta e senza soluzione di continuità, tra il monastero Mater Ecclesiae, residenza del papa emerito, e la Domus Sanctae Marthae, negli headquarters del papa regnante.

 

“Con la tempesta, è caduto il trucco ed è rimasta scoperta quella’appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci …”

C’è un nervo geopolitico e teologico che connette sottile, ipersensibile, i settennati di Bergoglio e Ratzinger. Divisi, più di quanto sia dato percepire. Uniti, più di quanto si possa concepire.

Lontani nella visione di Chiesa. Vicini nella concezione del mondo. Dialettici e distanti nell’analisi economica (Benedetto è un liberale illuminista e trascendente, Francesco un anticapitalista viscerale, impenitente) ma collimanti e univoci nella sintesi profetica.

Concordi ambedue nel giudizio, di fondo, sulla globalizzazione: un trend epocale che oggi subisce da dentro l’attacco esiziale, pestilenziale del coronavirus, ma che al loro sguardo realizza nondimeno ed esaudisce, provvidenziale, l’anelito divino di unificazione del genere umano. Come non si era visto prima nella storia.

Insomma, Dio lo vuole. Conclusione che in Bergoglio, papa di estrazione creola e attrazione sinica, si staglia in effetti conseguente, quasi tautologica, mentre in Ratzinger, europeista e sommo apologeta dell’imprinting greco - romano del cristianesimo, appare di per sé sorprendente, specie considerandone la portata teologica.

Eppure è stato proprio lui nel 2009, attraverso le pagine di Caritas in Veritate, a porre l’imprimatur di un’enciclica sul fenomeno dell’integrazione planetaria, riconoscendole un’anima e sancendone l’ascesa, nonché ascesi, dal piano sociale a quello dottrinale, quale “conditio” indispensabile alla sua comprensione: “La transizione presenta difficoltà e pericoli, che potranno essere superati solo se si saprà prendere coscienza di quell’anima etica e antropologica, che dal profondo sospinge la globalizzazione...”.

Concetto etico che in Francesco si materializza ed evolve in precetto etnico, alla stregua di verbo che si fa carne: non solo unione di anime, ma fusione di razze. Con il monito esplicito, pronunziato in febbraio sul lungomare di Bari al cospetto dei presuli del Mediterraneo, a non “contrastare il processo di unificazione della famiglia umana, che già si fa strada tra mille avversità”.

Se tuttavia le “avversità”, fino ad oggi, erano in primo luogo riconducibili ai populismi - sovranismi, nei cui confronti Bergoglio, proveniente da un paese peronista, sviluppa e possiede gli anticorpi del caso, il corona virus costituisce per contro un nemico inatteso, imprevisto, che trasferisce il terreno del contendere dall’ambito morale, delle coscienze, a quello subliminale dell’inconscio.

“Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca …”.

 

È come se la guerra mondiale a pezzi, mutuando la nota suggestione di Francesco, si fosse miniaturizzata e velocizzata, convertendosi da guerra di posizione in guerra lampo. Saldando in tempo reale l’umanità, sì, ma nella paura. E rimandando indietro, in flashback l’avventura del pontificato. Riavvolgendo il nastro del film e capovolgendone seduta stante la scena iniziale.

Quando infatti appena eletto l’arcivescovo di Buenos Aires rinunciò in un sol colpo, il 13 marzo 2013, al “palazzo” e alla “mozzetta”, per cingersi al loro posto di “popolo” e di “piazza”, non avrebbe pensato mai sette anni dopo di ritrovarsi a vivere la ricorrenza privo di entrambi.

L’unica “spoliazione” alla quale il pontefice, a dispetto della duplice predisposizione - argentino di nazione, assisiate di adozione - non era preparato. Sperimentando in modalità estrema il mistero e ministero della solitudine, indotta nel DNA di un Vicario di Cristo dall’incubatrice michelangiolesca della Sistina. Mutazione genetica che lo rende concettualmente l’uomo più prossimo a Dio ma pure, contestualmente, il più solo al mondo. Non solo servo bensì “nervo”, scoperto ed esposto ai sovraccarichi e cortocircuiti storici. Servo dei servi e, in definitiva, nervo dei nervi di Dio. Assimilandone la figura - oltre che a un ponte - ad un “fusibile”: paziente zero e portatore sano, filo conduttore della contraddizione insanabile, dell’orizzonte inconciliabile, in questa vita, tra cielo e suolo, natura e cultura, terra promessa e valle di lacrime, ospedali da campo e camere sterili.

Come se la creazione avesse mostrato improvvisa il suo lato dark (in alternativa si sarebbe costretti a prendere sul serio il ruolo di “alleato”, improvvidamente attribuito a Covid – 19, con una lettura estremistica di Laudato si’, dal gesuita Benedict Mayaki), separando poesia e prosa. Rompendo l’incanto amazzonico, ecologista della Chiesa di Francesco e atrofizzandone la capacità di reazione, che risulta e risalta inizialmente disorientata (di “sbandamento della leadership cattolica”, in proposito, ha lucidamente parlato Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio). Sino allo stop and go aneddotico, catartico della chiusura e riapertura delle parrocchie romane, disposta e revocata nell’arco di poche ore, proprio il 13 marzo, in un dietrofront da Quo Vadis, “Le misure drastiche non sempre sono buone”, ha sentenziato il successore di Pietro, celebrando la messa, dimessa, dell’anniversario e avvertendo impellente, inderogabile, la necessità di una scossa – riscossa.

Corto circuito mediatico tra esigenza evangelica e diligenza civica, tra Chiesa in uscita e Chiesa in ritirata (“In tempi di pandemia non si deve fare il Don Abbondio”, ha intimato al clero). Insostenibile impasse che ha spinto il Pontefice alla sortita, di Domenica pomeriggio, inoltrandosi solitario sulla via principale del centro cittadino, stretta e allungata, vuota e surreale come il tubo pulsante di un macchinario di risonanza magnetica. Per fare eco alle angosce, al rimbombo del mondo e trasformarlo in icona, silente, davanti al crocifisso “antivirus” di San Marcello al Corso, reduce dalla peste del 1522.

Immagine potente che assurge diagnostica, rivelatrice nella hit e galleria delle più significative del settennato e investe il nucleo stesso dell’esperienza di Francesco, spezzandolo e scindendolo in due, tra genesi e nemesi. Rovesciandone altresì e rinviandone l’esito sine die.

Avviene in Urbe, sul piano interno, ecclesiale, dell’evangelizzazione. Opponendo al messaggio e impegno missionario del papa gesuita, di portare la Chiesa fuori da se stessa, l’epilogo del vescovo che esce dalle mura e si aggira per la città deserta, dimora di un’umanità fortemente, forzosamente rarefatta: costretta in casa. Contrappasso feroce, da inferno dantesco, dell’individualismo e assenza di socialità – nell’era dei social -, che Francesco ha tenacemente, continuamente denunciato in guisa di male oscuro del millennio testé iniziato.

E accade in Orbe, sul piano esterno, internazionale, della globalizzazione. Posponendo in maniera indefinita il disegno e miraggio prioritario di Bergoglio, di tagliare il traguardo di Pechino: un obiettivo che sembrava sino a ieri a portata di mano, a seguito dell’accordo di settembre 2018 sulla nomina della gerarchia episcopale, ma oggi è tornato tout azimut proibitivo. Azzerando il countdown con una brusca frenata, mentre il paese leader dell’Occidente, colpito al cuore – nei centri vitali e diventato esso stesso epicentro - da una nuova Pearl Harbor, punta il dito e il dizionario all’indirizzo dell’Oriente, sul chinese virus e sul paese dal quale trae origine il flagello, fra guerre commerciali e revival dello scontro di civiltà.

In crudele analogia clinica con lo sviluppo del contagio, il morbo s’insinua dunque in profondità e insidia le vie respiratorie, innovative, del pontificato. La sua geografia e architettura diplomatica, protesa verso la Cina e l’Asia, per risalire la china di un cattolicesimo ancora fermo al tre per cento nel continente del futuro. La sua topografia e postura programmatica, distesa sulla teologia della città e sulla “scoperta di quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze … in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita”, recita Evangelii Gaudium, magna carta di Francesco.

Verosimilmente, sotto tale profilo, Covid -19 configura il nemico peggiore insorto fin qui sul cammino di Bergoglio, per l’attitudine a colpirne gli asset strategici e inibirne la narrazione, mirando ai luoghi “dove si formano i nuovi racconti e paradigmi” della Dottrina Sociale, dalle metropoli al Far East.

Un settimo sigillo e stigma bergmaniano, sull’agenda di un munus petrino che Padre Antonio Spadaro, fidato interprete, in tempi non sospetti connotò drammaticamente, sette anni fa, nel segno del confronto decisivo, da redde rationem, “tra il principe di questo mondo e il Signore della storia”.

Venerdì 27 marzo, ante-vigilia della risurrezione di Lazzaro. Come nell’episodio evangelico, la Chiesa giunge in ritardo sul luogo del dolore, ma si riprende subito, impareggiabile la scena, con una liturgia spettacolare, che catalizza l’audience e scala lo share. “Da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, da questo colonnato che abbraccia Roma …”

Erano tre lustri, dal funerale di Giovanni Paolo II e conseguente raduno dei grandi della terra sul sagrato gremito della basilica, che Roma non si mostrava così splendidamente, magistralmente “caput mundi”. Tratteggiando l’icona sovrana, contraltare, complementare di un re nudo nella sua solitudine: ma re.

Come una maison che dopo avere sperimentato il design alternativo del Giubileo 2016, start-up in Africa e produzione world-wide, riscopre il segreto e la romanità del proprio brand, nell’attitudine a confezionare, dall’Urbe, una visione dell’Orbe unitaria e prêt-à-porter: di massa e made in Rome.

Dall’abbraccio marmoreo del colonnato e quello incorporeo del web, l’Urbe ritorna quindi capitale. Ma l’Orbe, per effetto collaterale del corona virus, anziché presentarsi più coeso esaspera le disparità, pure all’interno della UE. Tra Nord e Sud, tra Est a Ovest: tra il Gruppo di Visegrad e i soci fondatori, su garantismo e autoritarismo. Tra luterani baltici e cattolici mediterranei, su intransigenza e “indulgenza” finanziaria.

“Le polarizzazioni sempre più forti non aiutano a risolvere i problemi”.

A immediata conferma del presagio del Pontefice, Covid - 19 conduce a maggiore età - cronicizzando ma non stabilizzando - l’era del disordine globale, inaugurata 18 anni prima, l’11 settembre 2001, al termine del breve, illusorio intermezzo del post guerra fredda, durato in tutto una dozzina d’anni, dal Muro di Berlino alle Twin Towers, e “dopato”, anabolizzato dal siero di verità della “fine della storia”.

Le polarità si moltiplicano e s’incrociano, in una serie di applicazioni geografiche o ideologiche, tra East e West, Meridioni e Settentrioni.

Tra l’East espansivo e guarito, lanciato a riconquistare, o estendere, la propria zona “d’influenza, lungo la via della silk and road initiative. E il West regressivo e ferito, lasciato a contare - contenere la perdita, crescente, di terreno e di vite.

Tra i Settentrioni, stremati ma organizzati: complessivamente in grado di opporre resistenza. E i Meridioni al contrario senza rete, disarmati, esposti al rischio di ecatombe biologica. Prospettiva che terrorizza il Vicario di Cristo. Come se l’inferno, schiacciato e tenuto a freno dal piede divino, si preparasse all’escalation dallo slum di una megalopoli africana o dalla botola di un campo profughi damasceno.

Infine tra le democrazie, che salvaguardano la struttura dello stato di diritto, e le autocrazie, che viceversa tirano dritto: attrattive, volitive, infettive. Approfittando della congiuntura per smantellarlo e volgerlo de facto in dittatura.

L’epidemia in definitiva disegna e ci consegna un mondo più piccolo e più grande, accorciando ed allungando, annientando ed aumentando in simultanea le distanze.

“Siamo sulla stessa barca”: nell’atrio di San Pietro, il Papa osserva il film a lieto fine del lago in tempesta, che campeggia sopra di lui dal mosaico giottesco. Fuori tuttavia, nel fascio di luce cinematografica del tramonto, il vascello della comunità internazionale evoca piuttosto la scialuppa del Titanic, dove l’istinto di sopravvivenza dei singoli prevale, scomposto, sulla consapevolezza “che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo”.

Diagnosi e prognosi, discorso e decorso separano destini e rotta di navigazione, al comando dei rispettivi capitani, che remano in opposte direzioni.

La barca è una, vero. Però l’equipaggio litiga e la sbilancia. Mentre l’onda di ritorno della recessione la spinge alla deriva. Impetuosa, imperiosa. Impedendole di raggiungere la terra e gettare l’ancora.