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L'ESISTENZA DELL'EUROPA - Il contributo di Massimo Cacciari

16 MARZO 2020

Ricordando oggi il lontano giorno in cui tutta l’Italia fu dichiarata “zona rossa” e miriadi di confini dividevano o cercavano di dividere comuni, provincie, regioni, anzi: una casa dall’altra, sembra incredibile misurare il cammino percorso. A molti  quella grande crisi sanitaria apparve come il sigillo di un processo di irreversibile decadenza delle istituzioni nostre ed europee, il simbolo della loro inettitudine a governare quel generale “mutamento di stato” che la nostra epoca rappresenta. E invece fu quel toccare il fondo da cui rimbalzò volontà politica, grande Politica. I giovani nati dopo quella data non possono immaginare la vera e propria “conversione” che la crisi produsse nell’intera classe dirigente del Paese, dalle forze politiche a tutte le organizzazioni di categoria. Mai, certo, il male è provvido, ma quello risvegliò intelligenze, fece comprendere i disastri del precedente trentennio, ne iniziò la sistematica cura. I primi segni della nuova fase, d’altronde, si potevano cogliere già nella gestione dell’emergenza stessa. Sotto il profilo medico-sanitario non vi era altra scelta, infatti, che seguire le indicazioni delle autorità scientifiche, del Consiglio superiore della sanità. Ma il Governo non si limitò affatto a questo né a stanziare confusamente qualche risorsa a fronte della scontata catastrofe per vitali settori della nostra economia. No, grazie anche a un’approfondita concertazione con le stesse opposizioni, il governo indicò le priorità di intervento, criteri e modalità di erogazione. Dimostrò subito di comprendere benissimo come non ci si ammali soltanto di corona virus, ma anche, e forse son mali di più lunga durata, e facilmente somatizzabili, di crescita ulteriore della disoccupazione, di precarietà dilagante, di smarrimento di ogni fiducia. Perciò si rivolse ai settori più colpiti dalla crisi (e fondamentali per l’economia del Paese), garantendo anzitutto ai lavoratori ogni forma di tutela (cassa integrazione o altro), e promettendo alle imprese una precisa riformulazione complessiva dei loro obblighi fiscali. Non solo, il Governo disegnò già durante i giorni in cui sembrava che l’unico imperativo categorico fosse “io sto a casa” (“padroni a casa propria” finalmente, scherzava qualcuno) le linee per affrontare le eccezionali difficoltà economico-finanziarie in cui ci si sarebbe trovati a “liberazione” avvenuta. I conti erano presto fatti e vennero esposti con chiarezza ai cittadini: erano in ballo centinaia di miliardi del PIL (solo turismo, con annessi e connessi, valeva il 13%); altro che qualche miliardo in più di deficit; occorreva finalmente porre mano a riforme strutturali della spesa. Vennero cosi richiamati in servizio i Cottarelli, i Cassese, ed altre voci prima sistematicamente ignorate. Si indicarono i colossali risparmi ottenibili da una radicale spending review collegata a una autentica riforma anti-burocratica e federalistica del nostro Stato. Si ammisero francamente i ritardi, gli errori, le impotenze dei governi passati. E soprattutto si dichiarò solennemente che i costi della piccola guerra non sarebbero stati “spalmati” sui cittadini, tantomeno su quel 50% di essi che paga regolarmente e in toto le tasse. Finalmente la lotta all’evasione non sarebbe rimasta il solito ritornello. Tutto questo rassicurò, rincuorò, fece intendere che dalla crisi nascevano volontà e progetti nuovi. Mentre medici, infermieri, protezione civile lottavano nel loro campo con tutti i mezzi a disposizione, malgrado i tagli susseguitisi per tutto il precedente trentennio e le disuguaglianze immense tra le strutture sanitarie delle diverse regioni, il ceto politico compiva cosi il proprio dovere, anche girando Europa e mondo per difendere l’immagine del nostro Paese e combattere lo sciacallismo di “amici” concorrenti. I risultati di tutte queste iniziative e decisioni venivano illustrati ogni sera dopo i bollettini medici.

Il buon giorno si vide cosi fin dal mattino, anzi: dal buio della notte. Il nostro Governo, forte di quella dolorosissima esperienza, si battè in ogni sede perché una nuova cultura politica si affermasse, coerente con il mondo globale in cui, ci piaccia o no, dobbiamo vivere. L’emergenza corona-virus non era “logicamente”diversa da tante altre che tormentavano quell’epoca fortunatamente passata. Nessuna crisi poteva restare locale. Si trattasse di finanza, di movimenti migratori, di ambiente, di malattie. Nessun muro ci difende dal dilagare del contagio. Se non quello che sappiamo costruire attraverso la cooperazione, l’intesa tra Stati, la definizione di regole e norme internazionali che si incardino nel diritto positivo di ciascuno. E ciò vale per ogni materia. La crisi sanitaria mise a nudo la necessità di questo salto. È vero che la sua natura, come quella dei terremoti, sembra trascendere ogni potenza politica, ma non è cosi. Il caso trascende soltanto una politica che non sia capacità di analisi e di previsione. Ma su tutte le grandi questioni noi abbiamo la capacità di prevedere e dunque prevenire. Una politica che insegue l’emergenza non poteva essere all’altezza dell’epoca. Per il semplice fatto che  l’emergenza in essa si fa fisiologica e cessa perciò di essere tale. Scoprimmo allora che era necessaria una cultura politica in grado di prevenire, come la buona medicina, pronta, cioè, ad affrontare quello che una volta sarebbe sembrato mero accidente. Ma per saper prevenire occorre sapere; le forze politiche divennero coscienti di ciò, si riorganizzarono in tal senso; interiorizzarono, per cosi dire, specialismi e competenze; moltiplicarono sforzi e risorse per la formazione di ceti amministrativi, burocratici, tecnici in grado di convivere con la “rivoluzione permanente” del nostro tempo.

Ciò che vent’anni fa sembrava si potesse soltanto sperare contro ogni speranza, nel corso di questa generazione si è quasi realizzato. Le nostre forze politiche hanno saputo far leva su quella crisi sanitaria per iniziare insieme la fase costituente che avevano ignobilmente mancato trent’anni prima, alla caduta del Muro. Per questo celebriamo oggi l’anniversario del 10 marzo 2020.

(articolo pubblicato su L’Espresso del 15 marzo 2020)

 

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